Dopo l’imaginifico
Pablo Picasso ecco salire sul palcoscenico dell’Opera di
Roma il saporoso Giorgio De Chirico, con i suoi
inconfondibili e fantasiosi colori: siparietti o fondali
con giganti, divinità tonanti, atre spelonche, approdi
marini e tanti costumi multicolori. Talmente belli da
correre il realistico rischio di rubare l’attenzione
alla coreografia, che dopotutto dovrebbe essere la vera
sostanza di una serata di balletto.
Quattro balletti di
spessore diverso si passano il testimone con il solo
minimo comun denominatore delle scenografie d’autore.
Balletti d’annata, ovvero di quegli Anni ruggenti ( gli
Anni Venti e Trenta del secolo ormai rimpianto) in cui
l’estetica dei favolosi Ballets Russes di Diaghilev
avevano imposto il dogma del massimo della qualità per
tutte le componenti dello spettacolo coreografico.
Il biglietto da
visita della serata è un balletto pirandelliano, una
stravagante Giara, balletto di ambientazione siciliana
su musiche di Casella, delineato in danza nel 1924 dallo
svedese Jean Börlin (direttore dei grandi Ballets
Suédois di Rolf de Maré) tra un folklore reinventato a
distanza e tradizionale linguaggio accademico (ma a Roma
il balletto era noto in una storica versione di Aurelio
Milloss su non meno significative scenografie di Corrado
Cagli). Eccellente nel ruolo protagonistico di un
dinoccolato gobbo il finnico Jorma Uotinen, unico
elemento di vitalità in un balletto un po’ datato e
certo poco mediterraneo.
Assolutamente
insopportabile invece l’Apollon Musagète (1956) di Serge
Lifar, nonostante l’ eleganza calligrafica di Igor Yebra.
Qui il primo interprete (1928) del più notevole e
poetico Apollon della storia, quello di Balanchine, si
cimenta nella ricreazione del capolavoro strawinskiano
per soli archi, ma senza l’ombra della genialità del
coreografo georgiano. Insomma un confronto ravvicinato
inaccettabile e assai rischioso. Invece che Muse le tre
danzatrici sembrano qui appena delle scolarette
frastornate e intimorite al primo giorno di scuola.
Molto meglio allora
il Bacchus et Ariane (1931) sempre di Lifar, ma qui
intelligentemente restaurato e ricomposto da Fredy
Franzutti. La musica rutilante di Albert Roussel e i
vivaci colori del grande pittore ridisegnano la storia
mitica di Arianna, salvata dopo l’abbandono dell’ingrato
Teseo e la discesa nel labirinto del Minotauro a Creta,
dal calligrafico e liberatorio Bacco di Giuseppe Picone.
E per chiudere il poker della serata il festoso Le Bal
(1929) di Balanchine su musiche di Rieti, già visto a
Roma nel 2005, con vecchi generali, aitanti ufficialetti,
silfidi e damigelle innamorate. Un po’ intimorito ed a
disagio, ma anche poco in sintonia con le esigenze della
danza è parso il giovane direttore Ottavio Marino sul
podio dell’Orchestra del Teatro.
Il pubblico non ha
tuttavia risposto al richiamo del sofisticato programma:
queste chicche meritavano davvero migliore sorte. Del
resto se, come ha ricordato il presidente Bertinotti in
sede di consegna del Premio eminenza per la cultura alla
Fracci in Parlamento, solo il 36% degli italiani legge
almeno un libro l’anno, c’era forse da farsi troppe
illusioni? Ma non di sole Belle addormentate vive il
balletto.
LORENZO TOZZI
|